Assumete un portamento sereno.
Se avete problemi specifici rivolgetevi a chi guida la meditazione. Potete tenere la mano destra sulla
sinistra o anche sulle ginocchia, i pollici delle mani si sfiorano.
Inizialmente potete fare oscillare il corpo lentamente verso destra e verso sinistra per poi
stabilizzarvi in una posizione eretta. Una volta assestata la postura non inclinatevi più né a
destra né a sinistra. Tenete la schiena dritta. Fate attenzione a rilassare le spalle.
Respirate attraverso il naso.
Tenete gli occhi leggermente aperti per evitare l’insorgere del torpore. Comunque, se sentite di
essere più concentrati con gli occhi chiusi, potete praticare anche così.
Una volta resa stabile la postura e armonizzato il respiro, rilassate il basso addome.
Il metodo basilare è seguire il respiro, essendo consapevoli di ogni inspirazione ed espirazione.
Non trattenete alcun pensiero, né positivo né negativo. Praticate la consapevolezza non giudicante.
Quando un pensiero vagante sorge, notatelo immediatamente. Diventandone
consapevoli esso scompare ed allora ritornate al respiro. Alla fine non sarete più coinvolti dai
fenomeni e la vostra pratica fluirà ininterrotta. Cercate di sedere immobili. Se insorge
qualche leggero dolore potete provare ad osservarlo senza modificare la posizione. Se invece
il dolore diventa preminente potete lentamente cambiare la posizione. Siate rilassati e
naturali. Non è necessario uno sforzo eccessivo.
Cercate di continuare la pratica in ogni situazione di vita quotidiana mantenendo tranquillità e
consapevolezza.
ATTEGGIAMENTO RILASSATO
Quando la mente lavora, dovreste essere rilassati e praticare senza tensione, senza sforzarvi. Più
rilassati siete, tanto più facile sarà sviluppare consapevolezza. Non vi stiamo dicendo di focalizzare,
fissare o penetrare, perché questo comporterebbe un dispendio di energie eccessivo. Invece vi
incoraggiamo ad osservare, guardare, essere attenti, prestare attenzione.
Se siete tesi o vi accorgete che lo state diventando, rilassatevi. Non c’è bisogno di chissà
quali energici sforzi. Siete consapevoli proprio ora, della vostra posizione? Siete consapevoli delle
vostre mani che toccano questo libro? Potete sentire i vostri piedi? Notate quanta poca energia o
sforzo vi serve per sapere tutto questo! Questa è la sola energia che occorre per restare consapevoli,
ma ricordate che è necessario fare questo tutto il giorno. Se praticate così, le vostre energie
aumenteranno nel corso della giornata. Se usate troppa energia, se la mente perde energia, vi
stancherete. Per essere capaci di praticare costantemente, occorre continuare a ricordarsi di essere
consapevoli. Questo giusto sforzo vi consentirà di praticare in modo rilassato; liberi da tensione. Se
la mente è troppo tesa o troppo stanca, non potete imparare nulla. Se la mente e il corpo si stanno
stancando, c’è qualcosa di sbagliato nel vostro modo di praticare. Controllate la posizione;
controllate il modo in cui state meditando. Siete comodi e vigili? Controllate anche la vostra
attitudine; non praticate con una mente che vuole qualcosa o che vuole che accada qualcosa.
L’unico risultato sarà che vi stancate.
Quindi dovete sapere se state sentendo tensione o rilassamento. Verificate questo
ripetutamente durante tutta la giornata. Se sentite tensione, osservate la tensione; non facendolo, la
tensione aumenterà. Appena vi sentite rilassati, potete meditare più facilmente.
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
I
Sedici Esercizi del Sutra Anapanasati
Commento
del venerabile maestro Thich Nhat Hanh, tratto da due discorsi di
Dharma tenuti il 18 e 22 gennaio 1998 a Plum Village.
Il
Sutra Anapanasati, o Sutra sulla Piena Consapevolezza del Respiro*,
tratta dei sedici esercizi per la pratica della respirazione
cosciente. È un sutra fondamentale e di grande bellezza. Esistono
molti sutra importanti, ma avvicinarsi ad essi senza aver prima
studiato il Sutra Anapanasati è come tentare di salire in cima ad
una montagna senza l'aiuto di un sentiero già tracciato. La
diffusione di questo sutra in Vietnam è iniziata nel I secolo dopo
Cristo, ma il primo commento, opera del maestro Tang Hoi, risale al
III secolo ed è in cinese. Dell'Anapanasati, infatti, esistono
diverse versioni nel Canone cinese, ad esempio nel Samyukta Agama,
oltre alla versione del Canone pali, contenuta nel Majjhima Nikaya.
Purtroppo il testo cinese, intitolato "Il Grande Sutra sul
Respiro", non è chiaro quanto il sutra corrispondente in pali,
anche se, ad un attento confronto, dopo oltre 2.500
anni,
le differenti traduzioni appaiono sovrapponibili per circa il 90 per
cento. E questo è meraviglioso. Tuttavia i sedici esercizi esposti
nel Canone Pali sono molto più efficaci. Per questa ragione ho
tradotto in vietnamita e in inglese quest'ultima versione. Il metodo
della presenza mentale attraverso il respiro consente di raggiungere
visione profonda e liberazione. Sono certo che il Buddha stesso,
anche dopo aver raggiunto l'illuminazione, ha continuato a seguire il
proprio respiro in consapevolezza. Respirare in consapevolezza
significa essere sempre padroni di se stessi, essere il conducente
della propria automobile, sapere come prendersi cura di sé in modo
stupendo. Anche se diventerete dei Buddha dovrete continuare a
nutrire con cura corpo e mente, poiché
abbandonando
la presenza mentale del respiro potreste essere trascinati via da
altra cose.
I
sedici esercizi esposti in questo sutra sono divisibili in quattro
gruppi: i primi quattro sono focalizzati sul corpo; i secondi quattro
sulle sensazioni, da intendersi come una formazione mentale; i
successivi quattro sulla mente, che equivale ad altre quarantanove
formazioni mentali; gli ultimi quattro sono focalizzati sui fenomeni,
ovvero le percezioni, la cinquantunesima formazione mentale. In
questo senso è possibile tracciare un parallelo con il Sutra sui
Quattro Fondamenti della Presenza Mentale, che ci invita a mettere in
pratica la contemplazione del corpo, delle sensazioni, della mente e
degli oggetti della mente.
Nel
primo esercizio del Sutra Anapanasati riconosciamo una cosa semplice
e miracolosa:
"Inspirando,
so che sto inspirando. Espirando, so che sto espirando".
Riportate
la vostra mente al corpo e al respiro, e all'improvviso vi rendete
conto: "Oh, sto inspirando, sto espirando". Riconoscete
semplicemente il vostro respiro. Dire "so che sto…"
significa che state portando tutta la vostra attenzione, tutta la
vostra mente, sull'inspirazione e sull'espirazione. Poiché
l'attenzione della vostra mente è tutta concentrata sul respiro,
ecco che senza sforzo potete lasciare andare le preoccupazioni, la
rabbia, l'avidità, la paura, la gelosia. La presenza mentale è come
una guardia che controlla i cancelli di una fortezza e che, quando
vede una persona che entra o esce dalla fortezza, sa se si tratta di
una persona del posto o di uno straniero. La presenza mentale è la
guardia che sa che state inspirando e sa che state espirando. La
vostra mente sa riconoscere se una certa energia è salutare o
nociva. Andando avanti, sviluppando sempre di più la pratica,
saprete riconoscere "questa è gelosia, quella è compassione",
ma all'inizio esercitate semplicemente la mente a riconoscere il
respiro. Alcuni mettono una mano sull'addome e vi portano tutta
l'attenzione: "Il mio addome si solleva (inspirando), il mio
addome si abbassa (espirando)". Concentrando la vostra
attenzione sul sollevarsi e l'abbassarsi dell'addome, tutti gli altri
pensieri si arrestano. Quando ricevete delle notizie che vi agitano,
e non riuscite a dormire, portate tutta la vostra attenzione al
movimento dell'addome: consentirete così al cervello di riposare,
all'agitazione e all'irritazione di calmarsi. Continuando questo
esercizio anche per soli 5, 10 o 15 minuti riuscirete a conciliare un
sonno profondo.
Il
secondo esercizio consiste nell'osservare e prendere atto della
lunghezza del respiro:
"Inspirando
un lungo respiro, so che sto inspirando un lungo respiro. Espirando
un lungo respiro, so che sto espirando un lungo respiro".
Oppure:
"Inspirando
un respiro breve, so che sto inspirando un respiro breve. Espirando
un respiro breve, so che sto espirando un respiro breve".
Ci
sono dei praticanti che cercano di forzare e modificare il proprio
respiro. Il Buddha ha detto che questo non è il modo corretto. Non
pensate che un respiro lungo sia meglio di un respiro breve, o
viceversa. Prendete soltanto atto della lunghezza del vostro respiro
per quella che è naturalmente. A volte il fatto che il respiro sia
corto è un bene, come quando, dopo aver fatto un grosso sforzo,
abbiamo bisogno di fare dei respiri più brevi. Altre volte,
invece,
ci può far bene stenderci e fare dei respiri lunghi e profondi. Un
respiro lungo va bene, un respiro breve va bene, tutto dipende da
cosa è meglio per il corpo e la mente in quel momento. Siate dunque
semplicemente consapevoli del vostro respiro, senza cercare di
intervenire su di esso. Non fate nulla, se non osservare e
riconoscere, senza reprimere o forzare. Quando c'è il sole, la sua
luce non fa altro che risplendere sulla terra. Non cerca di
diffondere i suoi raggi ovunque e non obbliga la terra ad assorbirli.
Il sole splende e basta. Cerchiamo di praticare in modo totalmente
non violento, in modo amorevole verso il nostro respiro. Quando siete
seduti con la schiena curva non dovete far altro che riconoscere
questo fatto: con naturalezza il vostro corpo tornerà nella
posizione corretta. Non dobbiamo dire quanti secondi o quanti metri è
lungo il respiro! Dobbiamo solo esserne consapevoli durante tutta la
sua durata: cominciamo dall'inizio dell'inspirazione e teniamo la
mente insieme al respiro fino alla fine. Quando espiriamo è lo
stesso: seguiamo da vicino il respiro finché non ha termine. Il
praticante deve dedicarsi diligentemente a questi due primi esercizi,
in modo da padroneggiarli.
Il
terzo esercizio consiste nell'essere consapevoli del corpo:
"Inspiro
e sono consapevole di tutto il mio corpo, espiro e sono consapevole
di tutto il mio corpo".
Inspirando
sono consapevole dell'aria che entra e riempie i miei polmoni. Posso
sentire l'espansione e la contrazione del diaframma, sento che il
respiro tocca ogni parte del corpo. Il respiro è connesso ai
movimenti del corpo, ma nel Buddhismo esso è inteso anche come parte
della mente. Quando camminate siete consapevoli di ogni vostro passo
e quando alzate una mano portate l'attenzione al sollevarsi della
mano. Se alzando la mano
seguite
il respiro, questo diventa elemento di unione tra corpo e mente.
Seguendo il proprio respiro si possono unire corpo e mente per cinque
o dieci minuti, e anche più, mentre se non siamo consapevoli del
respiro la mente avrà la tendenza a divagare. Quando corpo e mente
sono insieme potete guardare in profondità, mentre se la mente è
lontana e insegue i pensieri è difficile ottenere sufficiente
concentrazione. E senza concentrazione vediamo le cose in modo
superficiale. Alcuni insegnanti di Dharma del passato interpretavano
questo esercizio come: "Sono consapevole dell'intero corpo del
respiro". Non sono d'accordo con questa interpretazione perché
si tratterebbe di una ripetizione del secondo esercizio, che consiste
già nella consapevolezza della lunghezza del respiro, "il corpo
del respiro". Questa interpretazione parte dal presupposto che
se siamo consapevoli di tutto il corpo, l'oggetto della nostra
concentrazione diventa troppo vasto: ci sono il cuore, il fegato e
tutti gli altri organi. Per questo preferisce limitare la
concentrazione al "corpo del respiro". Ma questo, a mio
avviso, è sbagliato. Intere generazioni di praticanti hanno commesso
questo errore. È estremamente importante essere consapevoli del
proprio corpo. Il fegato, il cuore, gli occhi, le orecchie,
l'intestino sono tutti elementi molto importanti della nostra
pratica. Dobbiamo essere in pace con il nostro corpo, trattarlo in
modo amichevole. Abbiamo invece spesso la tendenza ad odiarlo, a
pensare che il corpo sia nemico della nostra spiritualità.
Il
quarto esercizio consiste nel calmare il corpo:
"Inspiro
e calmo e rassereno l'intero corpo. Espiro e calmo e rassereno
l'intero corpo".
Il
corpo può essere agitato, il fegato o il cuore possono non essere in
buone condizioni. Nel quarto esercizio seguiamo il respiro e calmiamo
il corpo: calmiamo il fegato, il cuore, le palpebre, gli occhi,
l'intestino, ogni parte del corpo. Se praticando non cercate di
calmare il corpo, come potete calmare la mente? Per prima cosa,
quindi, entrate in contatto con il corpo e calmatene ogni parte. In
seguito calmerete ogni parte della mente. A volte abbiamo così tante
preoccupazioni, ansie, paure, che il nostro corpo diventa teso, si
irrigidisce ed è causa di molti disturbi. Non si tratta di malanni
gravi, ma di piccoli problemi legati alla non buona condizione della
mente che nuoce al nostro organismo. Dobbiamo, quindi, per prima cosa
ritornare al corpo: "Sei lì mio piccolo cuore, so che lavori
duro e io non ti presto attenzione. Fumo, bevo troppo, e così ti
faccio soffrire". Sorridiamo al cuore o al fegato, sappiamo che
sono in difficoltà e che stanno lanciando un segnale d'aiuto. Non
pratichiamo il calmare solo a parole: abbiamo bisogno di sentire che
ogni parte del nostro corpo è davvero in pace. Arriviamo ora ai
quattro esercizi che hanno a che vedere con le sensazioni: il quinto
è sulla gioia, il sesto sulla felicità, il settimo è sulle
attività della mente, mentre nell'ottavo calmiamo le attività della
mente e le sensazioni. Iniziamo dal quinto:
"Inspiro
e provo gioia. Espiro e provo gioia".
Potete
praticare questo esercizio scrivendo una lista di tutte le cose che
vi danno gioia. Ma, anche qui, non dite "inspiro e provo gioia"
solo a parole. Dovete sentire davvero in voi questa gioia. Inspirando
non ho il cancro, non ho avversione, sono ancora molto giovane, in
buona salute, sono così fortunata da essere in contatto con la
pratica. Fate una lista scritta di tutte le cose positive in voi e
attorno a voi, in modo da poter essere davvero
in
contatto con la vostra gioia e trarne nutrimento. In Occidente le
persone confondono l'eccitazione con la felicità. Molti giovani
fraintendono e pensano che gioia e felicità siano la stessa cosa.
Hanno molta eccitazione,
ma
non sono veramente felici. In realtà gioia e felicità sono due cose
diverse. Per fare un esempio, se ci siamo persi in un deserto e
all'improvviso vediamo in lontananza un'oasi, iniziamo a sentire
gioia ed eccitazione perché sappiamo che presto avremo acqua da
bere. Quando arriviamo a bere quell'acqua, l'eccitazione inizia a
diminuire. Nella nostra gioia c'è un po' di pace, perché ora stiamo
bevendo davvero. Gustiamo realmente quella gioia: ecco, la felicità
è assaporare fino in fondo quell'acqua, non è la gioia eccitata di
quando stavamo pregustando quel bere. Per essere felici dobbiamo
vivere in profondità il momento presente. Respiriamo con gioia,
consapevoli di avere già molte condizioni per la felicità. Entriamo
in contatto con tali condizioni, rallegrandocene e vivendole con
pienezza.
Il
sesto esercizio consiste proprio nel godere concretamente delle cose
meravigliose che abbiamo:
"Inspiro
e mi sento felice. Espiro e mi sento felice".
Inspirando
entro in contatto con le condizioni di gioia, provo gioia. Espirando
abbraccio la gioia, la assaporo, e la gioia diventa felicità. La
gioia deve condurre alla felicità. La funzione della gioia e della
felicità è quella di nutrirci, non di essere ragioni di sofferenza.
Sono queste la gioia e la felicità sane, non la gioia e la felicità
dei desideri dei sensi, come la gioia del potere, del sesso, della
buona tavola. Eppure ci sono persone che passano la giornata pensando
solo cose negative su se stessi e sugli altri. E più pensano in
questo modo più si arrabbiano, si sentono frustrate. Per questo il
Buddha ha insegnato: "Nutri te stesso con la vera gioia e la
vera felicità". La pratica del quinto e del sesto esercizio va
fatta senza fretta. Vivete concretamente la gioia e la felicità che
sono attorno a voi e in voi. Siate in contatto con i vostri
meravigliosi occhi, che possono vedere il blu del cielo, il verde
della vegetazione. Potete ascoltare il canto della pioggia e degli
uccelli, potete godere di molte cose! Per costruire la vostra
felicità usate l'intelligenza. È vero, c'è sofferenza, ma entrate
per prima cosa in contatto con le meraviglie della vita e
nutritevene. Poi potrete guardare con più serenità ciò che non va
bene e prendervene cura per trasformarlo. La meditazione è cibo, la
felicità è cibo. Se la meditazione seduta non dona pace e gioia,
ciò significa che nella pratica c'è qualcosa che non va. Ci sono
probabilmente degli ostacoli, prodotti dalla nostra mente, che
impediscono di essere in contatto con le condizioni per la felicità.
Queste ultime sono numerose, ma non riusciamo ad apprezzarle. Quando
succede questo dovremmo incontrare il nostro insegnante o i nostri
amici
spirituali
e chiedere il loro aiuto per rimuovere quegli ostacoli. "Inspiro
e provo gioia" è una pratica che andrebbe fatta ogni giorno,
perché la gioia dà vita e conduce alla felicità. Inspirando, sono
in contatto con le condizioni per la gioia, provo gioia. Espirando,
abbraccio quella gioia. Ed essendo davvero in contatto con essa, la
gioia diventa felicità. Chiediamo anche ai nostri fratelli e sorelle
nel Dharma come praticano, in modo da imparare dalla loro esperienza
e migliorare ogni giorno la nostra pratica.
Nel
settimo esercizio siamo consapevoli di tutte le sensazioni:
"Inspiro
e sono consapevole delle sensazioni che sono in me. Espiro e sono
consapevole delle sensazioni che sono in me".
Nel
settimo esercizio pratichiamo la consapevolezza delle sensazioni,
usando la presenza mentale per essere in contatto con ciò che sta
accadendo. Se proviamo una sensazione gioiosa, siamo profondamente
consapevoli di questa sensazione e così continuiamo a nutrirla. Ad
esempio, se state mangiando un'arancia, siete davvero consapevoli del
suo dolce sapore. Se, però, mangiando quell'arancia siete gelosi o
arrabbiati con qualcuno, il
dolce
spicchio d'arancia è come un fantasma, in quanto non lo potete
assaporare pienamente. La presenza mentale può riguardare anche cose
negative: un collega, ad esempio, vi offre dell'alcol e mentre bevete
vi rendete conto del danno che può causare al fegato e alla mente.
Grazie alla presenza mentale potete iniziare a capire come rifiutare
ciò che danneggia il vostro benessere. Se, invece, siete assaliti
dalla gelosia, potete riconoscerla e dire: "Mia piccola gelosia,
so che ci sei", senza criticare o giudicare quella sensazione.
In questo esercizio siete semplicemente consapevoli delle sensazioni:
il dolce spicchio d'arancia, la gelosia, l'alcol. Se non lo foste,
potreste berne molti bicchieri, o pronunciare parole crudeli a causa
della vostra gelosia. Senza presenza mentale si possono fare molte
cose dannose. Essere consapevoli: è facile a dirsi, ma non è
affatto una pratica semplice. Pratichiamo allora con una comunità in
cui ci si sostenga l'uno con l'altro. Per riuscire a sostenere la
presenza
mentale di altri fratelli e sorelle nel Dharma, esercitate voi stessi
alla piena consapevolezza di ciò che sta succedendo nel vostro corpo
e nella vostra mente.
L'ottavo
esercizio consiste nel calmare tutte queste sensazioni:
"Inspiro
e calmo e rassereno le attività della mente in me. Espiro e calmo e
rassereno le attività della mente in me".
È
necessario mantenere calma qualsiasi sensazione, anche una sensazione
di gioia. Perché nella gioia c'è eccitazione e quell'eccitazione
deve essere calmata. Persino la felicità va calmata. Se poi in noi
c'è una sensazione dolorosa, che deriva dalle nostre preoccupazioni,
da rabbia, gelosia, disperazione, è davvero necessario riconoscere e
abbracciare quella sensazione. Questo esercizio consiste proprio nel
calmare le sensazioni, nello stesso modo in cui si calma un bambino
che ha il mal di pancia: ci rendiamo conto che ha male alla pancia,
lo teniamo in braccio e lo calmiamo. Come praticanti dovete sapere
come fare, non dovete lasciar passare del tempo, permettendo alle
sensazioni di distruggere il vostro corpo e la vostra mente. Quando
in voi c'è una sensazione, specialmente una sensazione dolorosa,
dovete sapere come usare l'energia della presenza mentale per
abbracciare quella sensazione, come una madre che abbraccia il suo
bambino. Dicendo: "Sono qui, sono qui. La tua mamma è qui, la
mamma è qui. Quindi non aver paura. Mi occuperò di te, abbraccerò
la tua sofferenza". Non scappate da quella sensazione! E quando
riuscite ad abbracciarla, usate il metodo dell'inspirazione e
dell'espirazione per calmarla.
Abbiamo
visto che i primi quattro esercizi hanno come oggetto il corpo,
mentre i successivi quattro sono centrati sulle sensazioni. Le
sensazioni possono sorgere dal corpo o dalle percezioni. A volte
abbiamo mal di testa o mal di stomaco, fenomeni che appartengono al
corpo e che ci causano una sensazione dolorosa. Al contrario, se
abbiamo dei vestiti caldi con cui coprirci e cibo a sufficienza sorge
in noi una sensazione piacevole proveniente dal corpo. Prendersi cura
del corpo significa, quindi, procurarci delle sensazioni piacevoli. E
lo stesso vale per le percezioni. Se ci prendiamo cura delle
percezioni, ridurremo le sensazioni dolorose, anche fisiche, che
provengono da esse. Le nostre percezioni erronee sono, infatti, la
radice di innumerevoli sensazioni di carattere
emotivo:
rabbia, tristezza, paura, preoccupazione, desiderio. Possiamo dire,
dunque, che l'oggetto della seconda serie di quattro esercizi sono le
sensazioni, che sono in relazione sia con il corpo che con le
percezioni. Passiamo ora agli esercizi dal nono al dodicesimo,
focalizzati sulla mente. In questo caso per mente intendiamo le
formazioni mentali. Dalla psicologia buddhista sappiamo che ci sono
cinquantuno formazioni mentali. Le sensazioni e le percezioni sono
due di esse. Ne rimangono, quindi, quarantanove. La mente viene
associata a queste ultime. Infine, gli esercizi dal tredicesimo al
sedicesimo hanno per oggetto i dharma, i fenomeni, che
colleghiamo
alle nostre percezioni. Prendendoci cura delle percezioni possiamo
trasformare completamente la grande sofferenza che ci procurano.
Nel
nono esercizio siamo consapevoli delle formazioni mentali:
"Inspiro
e sono consapevole delle formazioni mentali. Espiro e sono
consapevole delle formazioni mentali".
Come
abbiamo detto, questo esercizio è diverso dal settimo, che prendeva
in considerazione soltanto le sensazioni, mentre qui entrano in gioco
tutte le formazioni mentali. Inspirando, sono consapevole, riconosco
la formazione mentale che è presente in me in questo momento, che si
tratti di rabbia, tristezza, gelosia o avversione. La riconosco e la
chiamo per nome: orgoglio, sospetto, visione erronea, avidità.
Questo è davvero
importante:
le formazioni mentali vanno prima chiamate per nome e poi
abbracciate.
Nel
decimo esercizio rassereniamo la mente:
"Inspiro
e calmo e rassereno la mente. Espiro e calmo e rassereno la mente".
Come
è possibile rendere più gioiosa una formazione mentale già
presente in noi? Come possiamo fare sorgere delle formazioni mentali
positive, benefiche? Immaginiamo di disegnare un cerchio e di
dividerlo in due. La parte inferiore rappresenta la coscienza
deposito, mentre nella parte superiore individuiamo la coscienza
mentale. Sappiamo che la coscienza deposito custodisce tutti i semi.
Quando questi semi si manifestano diventano
formazioni
mentali e dobbiamo esserne consapevoli. Come possiamo far comparire
delle formazioni mentali positive nella nostra coscienza mentale?
Abbiamo dei semi buoni in noi: è possibile individuarli e aiutarli a
manifestarsi per rasserenare la mente? In noi ci sono i semi della
gioia, della felicità, dell'amore, del perdono: ci sono stati
trasmessi dai nostri genitori, dai nostri insegnanti, dai nostri
patriarchi. Dobbiamo aiutarli a crescere
ogni
giorno.
Nel
decimo esercizio cerchiamo proprio di entrare in contatto con questi
semi, per permettere loro di manifestarsi come formazioni mentali. Se
lasciamo che siano soltanto i semi della tristezza a manifestarsi,
questi prenderanno tutto lo spazio della nostra coscienza mentale,
soffocando i semi positivi. Non ci sarà più posto per la gioia.
Permettiamo allora ai semi di felicità di germogliare ogni giorno,
nutrendoli con l'ascolto dei discorsi di Dharma, con la pratica, con
la meditazione camminata, respirando in consapevolezza, leggendo i
sutra.
Nell'undicesimo
esercizio concentriamo la mente:
"Inspiro
e concentro la mente. Espiro e concentro la mente".
Concentrare
la mente significa che quando si manifesta in noi una formazione
mentale usiamo la consapevolezza per abbracciarla. Quando c'è
presenza mentale, c'è anche concentrazione. Se abbracciamo più a
lungo una formazione mentale, positiva o negativa, riusciamo senza
sforzo a guardare in profondità nella sua natura, generando in noi
saggezza, comprensione risvegliata. Non dobbiamo fuggire davanti a
una formazione mentale, bensì trattarla con la stessa cura di un
ricercatore che è consapevole dell'oggetto della sua ricerca, o come
uno studente di matematica che fa sì che la concentrazione abbracci
gli esercizi a cui si sta dedicando. Se cerchiamo di fare degli
esercizi di matematica mentre guardiamo la televisione non avremo
sufficiente consapevolezza e
concentrazione.
Per riuscire a guardare nelle nostre formazioni mentali, nell'ansia,
nella tristezza, nella gelosia, nella solitudine, dobbiamo entrare in
uno stato di profonda concentrazione. Sono emozioni che ci fanno
soffrire e abbiamo bisogno di abbracciarle. La tendenza che abbiamo,
invece, è opposta: vediamo che ci mettono a disagio e cerchiamo di
sfuggirle. Ora, però, siamo determinati ad abbracciarle. A tale
scopo usiamo la presenza mentale e la concentrazione. Se non le
abbracciamo, se non le osserviamo, non potremo mai liberarcene. Se
riusciamo a guardare, a riconoscere le formazioni mentali, e a vedere
che sono la radice della nostra sofferenza, diventa più semplice
lasciarle andare. In questo consiste il dodicesimo esercizio:
"Inspiro
e libero la mente. Espiro e libero la mente".
Cosa
vuol dire liberare la mente? "Inspirando mi libero, lascio
andare la formazione mentale che è in me, espirando lascio andare la
mia formazione mentale". Le formazioni mentali, come l'avidità,
l'avversione, il sospetto, l'orgoglio, sono corde che ci legano,
corpo e mente, e ci rendono la vita infelice. Quando riusciamo a
guardare in profondità in queste formazioni mentali, ad abbracciarle
e a lasciarle andare, allora scopriamo la
felicità
chiamata "liberazione della mente". "Inspirando,
concentro la mia presenza mentale e la mia attenzione sulla
formazione mentale che è in me, la abbraccio con tenerezza". Se
c'è concentrazione, la liberazione avviene in modo naturale, senza
sforzo. La preghiera non c'entra. È questione di pratica quotidiana.
Questi quattro esercizi centrati sulle formazioni mentali sono molto
importanti. Non dovremmo dire: "Posso farcela di sicuro".
Abbiamo moltissimo da imparare a questo proposito: le formazioni
mentali sono una pratica molto vasta da approfondire. Ogni volta che
una di esse emerge, dovremmo riuscire a chiamarla per nome e ad
accettarne le cause. "Eccoti qui, ti chiami avidità, ti conosco
da tanto tempo, sei una vecchia amica. Ben trovata!". E le
sorridete. Questo è il metodo per riconoscere le formazioni mentali.
Date loro il benvenuto quando si manifestano. Non permettete che
arrivino e vadano via senza averle riconosciute, è molto importante!
I dodici esercizi che abbiamo visto fin qui devono essere sviluppati
a fondo e con diligenza. Dobbiamo praticarli e condividere la nostra
esperienza con gli altri, per aiutare chi arriva dopo di noi a capire
come si pratica. Passiamo ora ai quattro esercizi che riguardano i
dharma o fenomeni. Grazie ad essi ci è possibile distruggere le
percezioni
erronee.
Il
tredicesimo esercizio consiste nella consapevolezza
dell'impermanenza:
"Inspiro
e contemplo la natura impermanente di tutti i dharma. Espiro e
contemplo la natura impermanente di tutti i dharma".
Abbiamo
in noi molti ostacoli dovuti all'ignoranza. Ci comportiamo come se
dovessimo vivere un milione di anni, come se fossimo eterni,
indistruttibili. Abbiamo sentito le parole del Buddha, abbiamo
ascoltato il nostro insegnante: entrambi ci hanno parlato
dell'impermanenza. Sappiamo bene che potremo vivere al massimo cento
anni. Pensiamo: quella persona ha avuto un incidente di macchina,
quell'altra è in ospedale, quell'altra ancora ha il cancro, quella è
morta. Ma crediamo che tutto questo non ci riguardi, viviamo questa
specie di follia. La nostra comprensione dell'impermanenza è molto
superficiale: la vediamo solo come un'idea, una teoria, e agiamo
nella vita quotidiana come se dovessimo esserci per sempre. Ma non è
vero, non è così. La nostra vita è come un lampo, come una nuvola
nel cielo. Dovremmo concentrarci e guardare in profondità
nell'impermanenza: vedere ogni passo, ogni respiro, ogni boccone di
cibo alla luce dell'impermanenza. Non si tratta di qualcosa di
negativo, di pessimistico. È la verità e va compresa bene, perché
l'impermanenza è essenziale per la vita. Se piantiamo dei girasoli e
vogliamo che crescano, l'impermanenza è indispensabile. Se il seme
di girasole dovesse rimanere per
sempre
un seme, non esisterebbe il girasole. Il seme deve scomparire
affinché il girasole appaia: ecco l'impermanenza. E poi, affinché
ci siano nuovi girasoli, il girasole deve diventare vecchio e morire.
Non dite "non mi piace l'impermanenza", perché vorrebbe
dire che non amate la vita. Impermanenza significa anche "non
sé". In termini di tempo, infatti, parliamo di impermanenza,
mentre in termini di spazio parliamo di non sé. Se
riuscirete
a vedere l'impermanenza e il non sé, vedrete l'interessere, la
vacuità. In seguito potrete ottenere l'insight, la comprensione
risvegliata dell'impermanenza. Vivrete nella luce, nel regno
dell'Avatamsaka, il mondo di non nascita e non morte. L'impermanenza
ci rende capaci di lasciare andare, e quando lasciamo andare, ci
sentiamo leggeri, liberi. L'insight dell'impermanenza ci dà
speranza, perché nulla resta uguale per sempre.
Eccoci
ora al quattordicesimo esercizio:
"Inspiro
e comprendo che i dharma non sono degni di essere desiderati. Espiro
e comprendo che i dharma non sono degni di essere desiderati.".
Inspirando
osservo in profondità la natura dei dharma e comprendo quanto non
siano "degni di essere desiderati". Il termine sanscrito è
viraga, ovvero "non provare attaccamento e desiderio per
qualcosa". Dovremmo sapere che i dharma, i fenomeni oggetto
delle nostre percezioni, sono impermanenti. Funzionano come esche, ma
non sono degni del nostro desiderio, anche se per ignoranza possiamo
ritenere che non sia così.
Dobbiamo
guardare con cura nella natura di ogni fenomeno, in modo da
comprenderne la relatività. Quando gettiamo un'esca nel fiume,
sappiamo che in quell'esca c'è un amo, e speriamo di ingannare il
pesce. In effetti il pesce è ingenuo, perciò non abbiamo bisogno di
usare un'esca vera. Ci è sufficiente agganciarne all'amo una di
plastica. Se il pesce sapesse come osservare la natura ingannevole
delle cose, riuscirebbe a individuare l'amo
nascosto
nell'esca e ne comprenderebbe la natura "non degna di essere
desiderata". Il Buddha ha detto che ci sono cinque tipi di
desideri mondani: potere, denaro, sesso, fama e buon cibo. La maggior
parte di noi ha sofferto a causa del desiderio di un cibo appetitoso:
mangiamo una pietanza perché ha un buon sapore, ma dopo soffriamo
moltissimo. Solo allora iniziamo a vedere che tutto ciò non è degno
del nostro desiderio. Il Buddha nei suoi discorsi ci ha offerto molti
esempi: il desiderio è come una torcia che reggiamo controvento, la
cui fiamma soffia all'indietro e ci brucia; il desiderio è anche un
osso senza carne che, rosicchiato dai cani giorno e notte, non dà
alcun nutrimento. Dopo aver guardato in profondità
nell'impermanenza, possiamo osservare a fondo la natura "non
desiderabile" delle cose che vogliamo per capire come portino
con loro pena e sofferenza. Il Buddha ha anche narrato la storia di
un assetato che aveva visto dell'acqua rosa, molto profumata.
Nonostante fosse stato avvisato che quell'acqua gli sarebbe stata
fatale, egli la bevve e morì. Questo è l'effetto dei desideri dei
sensi. Dobbiamo perciò ricordarci di mettere in pratica le parole
dei sutra con l'aiuto del Sangha. Se abbiamo la presunzione di farne
a meno, intraprenderemo facilmente il sentiero errato, inseguendo i
cinque desideri mondani. A questo proposito è anche utile chiedere a
chi ha sofferto molto, a causa dei propri desideri, di parlare della
propria sofferenza. È un modo eccellente per capire cosa si rischia,
soprattutto nel caso in cui non vi siate ancora addentrati in quel
regno di sofferenza e pensiate che sia una buona meta.
Proseguiamo
ora con il quindicesimo esercizio:
"Inspiro
e contemplo la natura di non nascita e non morte di tutti i dharma.
Espiro e contemplo la natura di non nascita e non morte di tutti i
dharma".
Il
termine nirodha significa "non nascita e non morte", ma
anche nirvana. Iniziamo a entrare in profondità nell'oggetto della
nostra meditazione: dopo aver compreso l'impermanenza e la natura non
degna di desiderio dei dharma, giungiamo al nirodha, che è la
cessazione, l'estinzione di nascita e morte. Inizialmente osserviamo
che le cose nascono e muoiono, hanno un inizio e una fine, un essere
e un non essere. Il più grande dovere di un praticante è proprio
andare oltre il mondo di nascita e morte ed essere parte del mondo di
non nascita e non morte. Perché nascita e morte sono soltanto idee.
Il Sutra del Cuore ci insegna che non c'è né nascita né morte,
nulla di puro e di impuro. È uno dei discorsi del Buddha che ci
mette in contatto con la dimensione ultima, dove non ci sono l'uno o
i molti. Aprire la porta di né nascita né morte, non andare né
venire, è come aprire la porta della dimensione ultima ed essere
incrollabili e liberi. Nonostante il quindicesimo esercizio sia
d'aiuto per entrare in contatto con la dimensione ultima, ci sono
persone che non apprezzano il mio insegnamento, dicendo che spiego
soltanto come inspirare ed espirare. In realtà inspirare ed espirare
seguendo il Sutra sulla Piena Consapevolezza del Respiro ci può
portare molto lontano.
Passiamo
infine al sedicesimo e ultimo esercizio:
"Inspiro
e medito sul lasciar andare. Espiro e medito sul lasciar andare".
Se
non riuscite a lasciare andare, non potete essere liberi. Abbandonate
le vostre idee sulla nascita e sulla morte, sull'esistere e sul non
esistere. Per essere felici occorre lasciare andare ogni convinzione
che procura sofferenza. Molti di noi credono fermamente che "questo
corpo è me", ma se lasciano andare questa convinzione possono
smettere all'istante di aver paura. Ancora, abbiamo l'idea che la
durata della nostra vita sia di settant'anni, ma se riusciamo ad
abbandonarla diventeremo immortali. Pensiamo di avere un sé
separato, crediamo che la nostra felicità non sia la felicità degli
altri e che quella degli altri non sia la nostra. Questo ci impedisce
di essere felici. Dobbiamo lasciare andare le idee di un sé, di un
essere umano, di un essere vivente e della durata di una vita, come
insegna il Buddha nel sutra Vajracchedika, il sutra del diamante che
recide le illusioni. Abbandonando queste idee potremo lasciare andare
qualsiasi attaccamento e saremo felici. Guardate bene nella vostra
mente per capire se c'è in voi una certa idea di successo, se volete
essere in un modo o in un altro, se pensate che starete bene solo
quando riuscirete a sposare quella persona oppure a divorziare, se
volete essere il numero uno. Si può perfino morire per idee di
questo tipo! Prendete allora quell'idea di felicità, abbracciatela e
osservatela in profondità. Sarete felici solo quando saprete come
lasciarla andare. In conclusione, il sedicesimo esercizio è molto
efficace e riguarda la pratica del lasciare andare le idee del sé e
della durata della vita, condizione essenziale per essere davvero
felici e stabili.
La
parte del sutra in cui sono illustrati i sedici esercizi si conclude
così: "La piena consapevolezza del respiro, se sviluppata e
praticata con continuità secondo questi insegnamenti, darà frutti e
sarà di grande beneficio". In effetti, il giorno in cui ho
scoperto la profondità di questo discorso del Buddha è stato un
giorno davvero felice. In precedenza avevo cercato di impararlo e mi
ero accontentato di una conoscenza teorica, senza però sapere come
godere del momento presente. Comprendere il Sutra Anapanasati,
quindi, è stato per me come trovare un immenso tesoro. Sono sicuro
che anche per voi sarà fonte di nuove comprensioni ogni volta che lo
studierete e lo metterete in pratica.
*Per
il testo del sutra tradotto da Thich Nhat Hanh e un ulteriore
commento più approfondito
consultare
"Respira! sei vivo", 1994, edizioni Ubaldini o "The
path of emancipation", 2000, Parallax Press.
________________________________________________________________
La pratica della presenza mentale insegnata dal maestro di meditazione dhyana (chan in cinese, thien in vietnamita e zen in giapponese) Thich Nhat Hanh sottolinea il ritorno al respiro consapevole, in ogni istante della propria vita, per potersi fermare (samatha) e guardare in profondità (vipasyana). La meditazione seduta, ma anche la meditazione camminata, la meditazione del lavoro, la meditazione del pasto, la consapevolezza nel mettersi in comunicazione con gli altri, sono alcuni dei mezzi abili per poter assumere uno stile di vita “meditativo”.
________________________________________________________________
La pratica della presenza mentale insegnata dal maestro di meditazione dhyana (chan in cinese, thien in vietnamita e zen in giapponese) Thich Nhat Hanh sottolinea il ritorno al respiro consapevole, in ogni istante della propria vita, per potersi fermare (samatha) e guardare in profondità (vipasyana). La meditazione seduta, ma anche la meditazione camminata, la meditazione del lavoro, la meditazione del pasto, la consapevolezza nel mettersi in comunicazione con gli altri, sono alcuni dei mezzi abili per poter assumere uno stile di vita “meditativo”.
Thich Nhat Hanh esorta inoltre a essere totalmente attenti e consapevoli in tutti i momenti della giornata – sia quando si lavora che quando si cucina, si lavano i piatti o si va in bagno – e a fare attenzione ai piccoli richiami che ci aiutano a far tornare al “qui e ora” la mente sempre distratta. Ogni volta che suona una campana o il telefono si respira tre volte, con la raccomandazione di sorridere (anche se si è tristi, perché il sorriso influisce sullo stato d’animo), e si recita in silenzio una breve poesia: “Ascolta, ascolta questo suono meraviglioso mi riporta
alla mia vera casa.”Anche il semaforo rosso può diventare un amico che ci ricorda di fermarci e ritornare a noi stessi.
alla mia vera casa.”Anche il semaforo rosso può diventare un amico che ci ricorda di fermarci e ritornare a noi stessi.
Sedere in meditazione è come ritornare a casa per dare piena attenzione al nostro sé e prendercene cura. Possiamo irradiare pace e stabilità proprio come il Buddha nelle molte immagini che lo ritraggono. Sediamo in posizione eretta con grande dignità e ritorniamo al nostro respiro. Portiamo piena attenzione a ciò che è in noi e a ciò che ci circonda. Lasciamo che si crei spazio nella nostra mente e che il nostro cuore diventi leggero e tranquillo.
La meditazione seduta è di enorme beneficio. Ci accorgiamo che possiamo tranquillamente stare con ciò che è in noi – dolore, rabbia, irritazione, o gioia, amore e pace. Stiamo con quello che c’è senza esserne trasportati via. Lo lasciamo venire, lo lasciamo rimanere e, poi, lo lasciamo andare. Non c’è alcun bisogno di scacciare, di reprimere o di fare finta che i nostri pensieri non ci siano. Osserviamo i pensieri e le immagini della nostra mente con occhio amorevole e con accettazione. Abbiamo la libertà di starcene fermi e calmi nonostante le tempeste che possono sorgere in noi.
Se durante la seduta le gambe o i piedi si addormentano, sentiti libero di modificare dolcemente la posizione. Puoi continuare a seguire il respiro e, lentamente e con attenzione, cambiare posizione. Che tu sia seduta su un cuscino, un panchetto, una sedia, o direttamente sul pavimento, siedi in modo da stare comoda. Cerca, senza sforzarti troppo, di tenere la schiena diritta, in modo che l’aria possa entrare e uscire con facilità dai polmoni e dal diaframma. Se possibile, inspira ed espira attraverso le narici, respirando in modo dolce e impercettibile.
Meditazione Camminata all’Interno
Meditazione Camminata all’Interno
Tra una sessione di meditazione seduta e l’altra, per sciogliere un po’ il corpo e per praticare la consapevolezza in movimento, pratichiamo Kinh Hanh, una meditazione camminata lenta. Camminiamo insieme, in senso orario, facendo un passo a ogni inspirazione e uno a ogni espirazione. Prova a portare l’attenzione al contatto dei piedi con il pavimento. Puoi iniziare a camminare con il piede sinistro, inspirando e dicendo in silenzio `inspiro’. Poi, quando il piede destro avanza e tocca il pavimento, puoi dire dentro di te`espiro’.
Ovunque camminiamo, possiamo praticare la meditazione camminata. Ciò significa semplicemente sapere che stiamo camminando: lo scopo della meditazione camminata è solo camminare, essere nel momento presente, consapevoli del nostro respiro e del nostro camminare. Non c’è bisogno di arrivare da nessuna parte. Camminiamo liberi e stabili, senza fretta. Siamo presenti ad ogni passo. E quando desideriamo parlare, ci fermiamo e diamo piena attenzione all’altra persona, alle nostre parole e all’ascolto.Camminare in questo modo non dovrebbe essere un privilegio. Dovremmo poterlo fare in qualsiasi momento. Ci guardiamo attorno e vediamo quanto vasta sia la vita, vediamo gli alberi, le nuvole bianche e il cielo senza limiti. Ascoltiamo il canto degli uccelli. Sentiamo la freschezza della brezza. La vita ci circonda e noi siamo vivi, in buona salute e in grado di camminare in pace.Camminiamo come persone libere e sentiamo i nostri passi farsi più leggeri. Godiamo di ogni passo che facciamo. Ogni passo ci nutre e ci guarisce. Camminando, lasciamo l’impronta della nostra gratitudine sulla terra.Camminiamo più lentamente del solito, anche se un po’ più veloci di quando facciamo kin hanh nella sala di meditazione. Nel camminare, coordiniamo il respiro con i passi. Nel far questo può esserci d’aiuto l’uso di una gatha. Facciamo due o tre passi per ogni inspirazione ed espirazione: Sono arrivato (inspirando);Sono a casa (espirando) Nel qui (inspirando);E ora (espirando)
Se camminiamo in salita è probabile che i polmoni richiedano di fare due passi a ogni inspirazione e due passi a ogni espirazione. Adattiamo dolcemente la pratica alla richiesta dei nostri polmoni, in qualunque momento, qualunque essa sia. Scrolliamoci di dosso ogni preoccupazione e ansia.
Camminando potresti voler stringere la mano di un amico e sentire così tutta la felicità per la sua presenza accanto a te. Di quando in quando, vedendo qualcosa di bello – un albero, un fiore, un farfalla – vorrai fermarti ad osservare meglio. Nel guardare, continua a seguire il respiro, in modo da non essere catturato dai tuoi pensieri e perdere così la vista di quel bel fiore.
Camminando potresti voler stringere la mano di un amico e sentire così tutta la felicità per la sua presenza accanto a te. Di quando in quando, vedendo qualcosa di bello – un albero, un fiore, un farfalla – vorrai fermarti ad osservare meglio. Nel guardare, continua a seguire il respiro, in modo da non essere catturato dai tuoi pensieri e perdere così la vista di quel bel fiore.
Nella meditazione del pasto mangiamo in silenzio. Questo ci permette di gustare realmente il cibo e di entrare profondamente in contatto con le persone che ci siedono attorno. La prima volta che ti capiterà di mangiare in silenzio potrà sembrarti strano o innaturale, ma dopo un po’ ti accorgerai che un pasto in silenzio può dare molta felicità, pace e comprensione profonda.
Mangiare insieme è una vera e propria meditazione. Possiamo iniziare a praticare fin da quando ci serviamo da mangiare: riempiendo il piatto siamo consapevoli che molti elementi – pioggia, sole, terra, aria e amore – sono riuniti a formare quel cibo meraviglioso. Vediamo che attraverso quel cibo l’intero universo sostiene la nostra esistenza.Mentre ci serviamo siamo consapevoli degli amici che ci circondano, e prendiamo la quantità di cibo che è giusta per noi. Prima di iniziare a mangiare la campana viene invitata a suonare tre volte, e possiamo allora godere del nostro respiro mentre pratichiamo le cinque contemplazioni del cibo:
- Questo cibo è un dono della terra, del cielo e di tanti esseri viventi, ed è frutto di molto duro lavoro fatto con amore.
- Che noi possiamo mangiarlo in consapevolezza e gratitudine, così da essere degni di riceverlo.
- Che possiamo riconoscere e trasformare le formazioni mentali non salutari, in particolare l’avidità, e imparare a mangiare con moderazione.
- Che possiamo mantenere viva in noi la compassione, alimentandoci in un modo che riduca la sofferenza degli esseri viventi, protegga il nostro pianeta e inverta il processo di riscaldamento globale.
- Accogliamo questo cibo per coltivare la fratellanza, rafforzare il Sangha e nutrire la nostra aspirazione a essere al servizio degli esseri viventi.
Mangiamo lentamente, provando a masticare ogni boccone almeno 30 volte. Godiamo di ogni boccone e della presenza dei fratelli e delle sorelle di Dharma attorno a noi. Stabiliamoci nel momento presente, mangiando in modo che durante il pasto possano realizzarsi stabilità, gioia e pace. Mangiando in silenzio il cibo viene reso più reale dalla nostra presenza mentale, e siamo consapevoli del suo nutrimento. Dopo aver finito il pasto, prendiamoci qualche momento per essere consapevoli di aver finito, consapevoli che la nostra scodella è vuota e la fame soddisfatta. Renderci conto della fortuna di aver avuto quel cibo nutriente da mangiare, cibo che ci sostiene sul sentiero della comprensione e dell’amore, ci riempie di gratitudine.
Nessun commento:
Posta un commento